Pallavolo

L’eterno Leonel Marshall: “A quasi 50 anni mi diverto ancora a giocare. Velasco mi ha cambiato la vita”

Fabrizio Testa

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Leonel Marshall/ LaPresse

Una leggenda ancora in attività. Sono passati più di venticinque anni da quando Leonel Marshall è approdato in Italia, regalando dei momenti indimenticabili al movimento pallavolistico del nostro Paese. Oggi, nonostante i suoi 46 giri intorno al sole, lo schiacciatore è impegnato tra le fila della Sviluppo Sud Catania, squadra facente parte del Campionato di Serie A2, in nome di un amore, di una passione, di una dedizione con pochi eguali verso il campo. Il cubano è intervenuto in una delle ultime puntate di Focus, rubrica di approfondimento condotta da Alice Liverani e in onda sul canale YouTube di OA Sport condotta da Alice Liverani, per raccontare la sua incredibile carriera, ma anche per fornire il suo interessante punto di vista circa la differenza tra i giocatori attuali e quelli di una volta.

Giocare credo sia ancora la mia principale motivazione, mi diverte ancora – ha detto Marshall – Ho sempre detto che il giorno che non mi divertirò più smetterò subito. Ancora però non è capitato. Penso che molto presto però accadrà, sono vicino ai cinquanta. Arriverà il momento anche per me. Non salto più come quando ero più piccolo, ma riesco ancora a salticchiare bene. In carriera ho giocato in cinque o sei Paesi diversi, ognuno di questo mi ha dato tanto a livello culturale e a livello di esperienza lavorativa. Giocare lontano dall’Italia ti insegna tantissimo, è diverso. Ma è un’esperienza che rifarei volentieri, anzi forse la inizierei prima. Ho ricevuto sempre proposte dall’estero: io ho sempre avuto paura di spostarmi. La vita va vissuta, se arriva la possibilità bisogna provare per capire cosa si prova. Tanti non escono dalla propria zona di comfort, a volte finiscono la carriera senza provare altre esperienze. Io non volevo essere tra quelli, ho accettato ed è stata la mia scelta migliore”.

Il giocatore ha poi riassunto il suo nastro biografico, parlando del suo arrivo in Italia: “Sono nato a Cuba, sono rimasto lì fino ai 20 anni, poi mi sono trasferito in Italia, adesso sono 26 anni che vivo qui. Sono all’80% cubano, è stato il posto che mi ha visto nascere, non si può rinnegare il mio Paese. Io quando avevo 16 anni sono arrivato qui con una squadra di A2 a Livorno. Era la mia esperienza da solo, lontano dalla mia famiglia. In quel contesto ho conosciuto delle persone che mi hanno accolto benissimo e mi hanno fatto amare l’Italia. Poi la Toscana è un posto benissimo. L’anno successivo sono rimasto nella stessa squadra. Poi nel 2001 ho deciso di rimanere stabilmente, ho lasciato la Nazionale per giocare solo a livello professionistico. E stata una scelta dura, anche perché avevamo serie possibilità di competere per una medaglia alle Olimpiadi. Avevamo già vinto una Coppa del Mondo e tanti altri trofei. Eravamo forti, ma c’erano problemi finanziari, burocratici, organizzativi. In tanti abbiamo deciso di non ritornare perché volevano toglierci la possibilità di giocare come professionisti. Confrontarsi con i migliori è la cosa più bella, loro volevano toglierci questa possibilità, noi abbiamo quindi scelto un’altra strada”. 

Marshall ha proseguito: “Mi ricordo tanti momenti belli come lo scudetto con Piacenza nel 2000 dove abbiamo ribaltato il risultato a Trento, perdevamo la serie 2-0. Poi ho cominciato a giocare all’estero, in Turchia, non avevo fiducia perché mi dicevano che era difficile stare lì. Non è stato così, sono stati gli anni più belli della mia carriera. Questa scelta mi ha aperto gli occhi, da lì ho deciso di girare di più. Le scelte che ho fatto le ho fatte con il cuore. Non rifarei un torneo in Libia, ho visto una città distrutta dalla guerra, con persone che non sapevano quello che stavano guardando in quanto ancora sotto shock”. 

A tal proposito, il pallavolista ha evidenziato quanto sia importante reagire ai momenti di difficoltà: “Ogni giocatore ha un modo diverso di approcciarsi. Io sono andato via di casa molto giovane, ho sviluppato gli anticorpi per sopperire alle difficoltà, avevo già la testa per reagire. Non ho mai avuto infortuni importanti, sarò stato lontano dal campo soltanto un mese. In venticinque anni sono stato fortunato. Non è facile, ci sono momenti no da cui è difficile uscire. Bisogna credere in sé stessi perché non essere a posto con la testa può creare tanti danni fisici e mentali. Sono due cose collegate. Bisogna cercare aiuto, da uno psicologo o con una persona a te cara. Se sei da solo te la devi cavare, noi facciamo un lavoro che è sport, ci si diverte, ci fa bene alla salute. Ma è sempre sport”.

Critico invece il giudizio sui social network:  “Li vivo molto poco, non mi piace questo mondo, sta isolando le persone. Durante le cene di squadra vedo tutti con il telefono e noi non ci parliamo. E’ uno strumento per isolare le persone dalla realtà, ci si impegna solo di apparire e di mostrare una vita perfetta che in realtà non c’è. Controllano le persone e le isolano da quello che c’è fuori. Io non ho una vita perfetta, ho una vita felice, che è la cosa più vicina alla perfezione. Cosa dico ai più giovani? Vorrei che imparassero un po’ di umiltà, adesso nessuno di loro fa la gavetta, a loro è permesso tutto. Non si fa come prima: prima un ragazzo giovane faceva una partita bella, riceveva qualche complimento e stop. Adesso se fai una buona partita vieni trattato come il nuovo fenomeno della pallavolo. Loro devono avere i piedi per terra, ascoltare chi è più grande di loro. Se seguono quelle strade, allora faranno una grande carriera. Ho visto tanti giovani diventati più grandi di quello che già sono, diventano arroganti, pieni di sé, questo non li aiuta. Noi di una certa età non cerchiamo più il complimento, anche se ci fa piacere perché dopo tanti anni sappiamo quanto è difficile giocare ad alti livelli. Dopo tanta esperienza non ci serve nessuno, siamo autocritici. Bisogna stare attenti ai complimenti con i più giovani, siamo diversi. Ai miei tempi i grandi ti facevano stare con i piedi per terra. Oggi non ti ascoltano, perché c’è il manager che li gonfia, allenatori che li gonfiano. Ogni talento va allenato, se sei talentuoso ma non porti rispetto non arrivi lontano. La pallavolo è uno sport di squadra, con una persona sola non si vince la partita. A livello di squadra si mantiene l’approccio di gruppo, e questo non si è perso. Ci sono casi in cui si danno privilegi ad alcuni atleti, mentre ad altri no. Tu puoi avere preferenza per qualcuno, ma non puoi mettere da parte gli altri. L’allenatore deve insegnare la pallavolo, come Di Pinto o Velasco. La pallavolo va insegnata ogni giorno, anche io ho tanto da imparare. Lo sport si evolve, ci sono giocate nuove, gesti tecnici a cui ti devi adattare. Non si finisce mai di imparare”. 

Ma chi ha cambiato la vita a Leonel dal punto di vista sportivo? Quasi scontata la risposta: “Julio Velasco. Sono arrivato in Nazionale che giocavo opposto, lui al primo anno in Italia mi ha fatto giocare schiacciatore. Ha creduto in me anche in un ruolo che non aveva mai fatto. Il fatto di avere qualcuno che crede in te senza vederti giocare in una posizione è tanta roba. Lui ha creduto nel suo sapere insegnare. E anche sul futuro, Marshall ha lasciato pochi dubbi: “Cosa farò da vecchio? Sono già vecchio. Non credo di fare l’allenatore né di stare dentro le palestre; è un lavoro bello, ma duro a livello di sacrifici e famiglia. Dopo tanti anni di belle brutte cose, quando finirò farò tutt’altro. Vorrei godermi i miei, fare l’allenatore è la stessa vita dell’atleta senza stare in campo. Devi stare comunque sempre lì. Penso che adesso posso godermi il resto in tranquillità. Ho degli investimenti fuori dalla pallavolo, mi concentrerò su quelli. La pallavolo mi ha dato tutto, mi ha insegnato ad essere responsabile ed umile oltre che a stare con i piedi per terra, a vedere persone che hanno un modo diverso dal tuo. La pallavolo mi ha insegnato ad accettare la diversità. Se una persona e non ha i tuoi stessi pensieri tu devi dargli il tempo, capirlo e cercare una soluzione“.

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