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Vela, Giulia Conti: “Il problema dell’Italia alle Olimpiadi? E’ vissuta come un’ossessione. Per me è stato così”

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Dopo quattro Olimpiadi da atleta, Giulia Conti si appresta ad affrontare quest’estate a Tokyo i suoi primi Giochi Olimpici nelle vesti di coach. La 35enne romana, ritiratasi nel 2016 dopo Rio, ha intrapreso infatti una nuova avventura con la Nazionale americana di vela togliendosi già delle grandi soddisfazioni anche a livello personale. Pochi giorni fa l’ex velista azzurra è stata premiata dalla federazione statunitense come miglior allenatrice del 2020, in seguito agli ottimi risultati ottenuti dalla coppia 49er composta da Stephanie Roble e Maggie Shea (bronzo ai Mondiali di Geelong, secondo posto alla Kieler Woche).

La classe 1985, prima non americana della storia a vincere questo premio, ha parlato delle differenze principali tra il sistema azzurro e quello a stelle e strisce: “Le due federazioni lavorano in modi completamente diversi. In Italia gli atleti hanno tantissimo, gli viene pagato quasi tutto. Negli Usa non è così. In America lavorano tanto con le donazioni di singole persone, che poi vengono scalate dalle tasse. Le mie ragazze si occupano di tutto, anche della logistica e del pagamento dell’allenatore. Gestiscono in pratica una azienda da migliaia di dollari“.

Riescono anche a ricavarsi un piccolo salario per se stesse, che si va a sommare a quello che ricevono dal Comitato Olimpico quando ottengono determinati risultati – prosegue la campionessa iridata 2015 del 49erFX Le mie ragazze sono molto più strutturate ed efficienti nella gestione del tempo. Gli americani stanno sempre in appartamento, gli italiani in albergo. Fanno molta attenzione all’alimentazione ed alla preparazione fisica”.

Tre volte quinta ai Giochi Olimpici, ma capace di vincere almeno un titolo europeo e mondiale in carriera, Giulia ha fornito il suo punto di vista a proposito dell’allergia italiana ai cinque cerchi nella vela rispetto alle altre competizioni: L’Olimpiade è una regata molto particolare. Già il format è diverso, regati 4 giorni + 1. A volte diventano una sorta di ossessione invece che un obiettivo o un sogno. Per me era diventata una ossessione. Così porta solo dei connotati negativi, perché devo vincere per forza. In generale penso che l’atteggiamento italiano sia quello. Negli Stati Uniti non si respira questa aria di oppressione sugli atleti per ottenere risultati. L’head coach lascia carta bianca agli allenatori di classe. Il grosso nodo è lì, farlo diventare un sogno e non un’ossessione”.

Foto: Olycom

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