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Alessandro Abbio, basket: “Ai giovani bisogna dare chance di stare in campo. Dido Guerrieri all’inizio, a 17 anni, mi diede tanto spazio”

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Alessandro Abbio: un nome, una garanzia. Con 150 presenze in Nazionale e 1082 punti è stato uno degli uomini più importanti di tante avventure azzurre, quelle degli anni più belli: argento agli Europei 1997, 6° posto ai Mondiali 1998, oro agli Europei 1999, 5° posto alle Olimpiadi 2000. Non sono però le sole cifre a dare la misura dell’importanza di “Picchio”, un autentico pilastro del basket italiano lungo gran parte degli Anni ’90 e l’inizio dei 2000. In quest’intervista ci ha raccontato, oltre al suo attuale impiego da viceallenatore all’Olimpo Basket Alba in Serie B, tanti aneddoti sull’intera sua carriera: dagli inizi con Torino ai trionfi con la Virtus Bologna, per arrivare poi alle esperienze in Spagna, a Livorno e a Firenze. Un capitolo speciale l’ha dedicato alla maglia azzurra, amata e vestita sia da giocatore che, per un breve periodo, nei quadri tecnici dell’Under 20.

Che tipo di progetto è quello dell’Olimpo Basket Alba, considerandone anche la lunga storia?

“Sono tornato qui in Piemonte, a Bra, sei anni fa abbondanti. I primi quattro anni li ho fatti lì, dove ho iniziato a giocare a pallacanestro. Ho iniziato a dare una mano come assistente allenatore nella prima squadra e poi nel settore giovanile, con allenamenti differenziati di lavoro individuale. C’era una zona in cui c’era un palazzetto pieno di società che lo utilizzavano, magari c’erano degli spazi vuoti, prendevo un mercoledì in cui non avevano impegni in termini di orario scolastico e se riuscivo a prendere cinque, sei, dieci ragazzi. C’era anche un ragazzo del 2004, Francesco Ferrero, con delle buone prospettive, che ora è alla Reyer Venezia, mi fa piacere che ci sia un continuità anche da quel punto di vista. Dopo di me sono venuti fuori altri ragazzi. Qualcuno è arrivato alla B, qualcuno più in alto come Giancarlo Ferrero. Qui ad Alba c’è stato un interessamento quando stavano facendo il salto dalla Serie C, dove ci scontravamo in un derby molto sentito sia a livello giovanile che senior (ci sono 10 km di distanza) e dove ci sono tradizioni di pallacanestro molto importanti. L’Alba è nata nel 1971 con il presidente, che è stato anche mio procuratore, e ad Alba la tradizione è ancora precedente. Io ho dovuto prendere una decisione dopo quattro anni che ero lì, non ero più allenatore della prima squadra e l’ho fatto solo dell’Under 20. Abbiamo vinto un titolo regionale di secondo livello, perché non eravamo nella prima fascia, però è un successo che è stato importante per noi ragazzi. Alba mi ha contattato, visto che ero senza contratto, loro sono saliti in Serie B. Ho voluto dare una mano a Luca Iacomuzzi, mio ex compagno a Torino, che era qui da sei anni come allenatore, e quindi per fare una squadra di Under 20 Eccellenza. Era il primo anno che si poteva fare un certo tipo di lavoro, in cui si apriva una foresteria con i ragazzi da fuori che avrebbero dato una mano per l’Under 20 anche per altro. Ora sono tre anni che andiamo avanti sempre migliorando. Ho allenato dall’Under 20 all’Under 13, quest’anno gli Under 18, dando sempre una mano per la Serie B. Alle volte ci siamo dovuti scambiare io e ‘Iaco’, che siamo più o meno della stessa leva, perché qualche ragazzo era acciaccato, c’era qualche problema di lavoro o di università e ci si dava da fare come meglio si poteva”.

Si diceva di Torino, che è stato anche l’esordio con Gianni Asti e Dido Guerrieri in panchina, con fior di americani come Darryl Dawkins, Kevin Magee, Joe Kopicki, i nostri Riccardo Morandotti, Fausto Bargna, e con tutti questi nomi si faticava a stare in A1.

“Il primo anno in cui ho esordito ne avevo 17, era il 1988. Ero arrivato a Torino viaggiando, al tempo non c’era l’Eccellenza, c’era la juniores top. Siamo retrocessi nonostante ci fossero i grandi giocatori. Ho fatto qualche presenza, poi arrivavo anche da un infortunio al ginocchio. L’anno dopo abbiamo dominato il campionato di A2, in quello ancora successivo ho avuto molti più minuti a disposizione, e molto spazio. È stato dato il via a tutto. Ci siamo ritrovati in A1 e ci siamo rimasti per diversi anni. Ho fatto sei stagioni a Torino di cui quattro di A1 e due di A2. L’ultima fu di A2, prima di andare alla Virtus Bologna. Sono stato anche capocannoniere dell’A2. È stato un periodo veramente entusiasmante che ho avuto la fortuna di vivere in un momento in cui la pallacanestro stava veramente crescendo”.

Pallacanestro che in quegli anni andava forte anche perché aveva un aiuto non indifferente, quello di Gianni De Michelis.

“C’erano sempre stati dei personaggi. Se non ci sono queste situazioni si fa fatica. Lo abbiamo notato nel corso degli anni che se non ci sono anche delle autorità che non sono proprio appassionate alla pallacanestro non è semplice. De Michelis era appassionatissimo. Ne sono venuti tanti, ma di lui mi ricordo che appena aveva la possibilità di vedere una partita era in parterre. Questo è un bene per qualsiasi attività sportiva, perché ci sono delle attenzioni più centrate. Non è che la pallacanestro non è seguita in Italia, è il secondo sport come affluenza di pubblico nei palazzetti, tesserati a livello giovanile, quindi è uno sport che calamita l’attenzione di tantissimi appassionati già da noi, per tacer del resto del mondo”.

De Michelis che riuscì anche a dare il maggior lustro a livello televisivo alla pallacanestro italiana. Riuscì a strappare alla Rai un contratto da 10 miliardi per 5 anni, che confrontato alle cifre che girano oggi sono enormi.

“Magari adesso ci sono televisioni più specializzate che fanno anche dei servizi importanti, però a livello di chiaro per tutti in questo momento la pallacanestro manca molto. È un dato di fatto. Avere la possibilità di entrare in tutti i televisori d’Italia è una situazione vantaggiosa per qualsiasi sport sia trasmesso. Adesso, parlando di amarcord, ti dicono: ‘Ho iniziato a vedere la pallacanestro guardandoti’. Avevano la possibilità di vedere le partite il sabato, la domenica. Poi c’erano anche le coppe in infrasettimanale, però c’era sempre questa problematica della trasmissione delle partite su televisioni in chiaro”.

Oggi è cambiato tutto anche a causa dello streaming, ma è un argomento molto ampio.

“Per la prima volta noi ad Alba quest’anno abbiamo avuto spese maggiori, che non erano neanche previste all’inizio perché ci siamo ritrovati tre trasferte in Sicilia, e noi le abbiamo fatte tutte. I nostri tifosi non è che potessero venire in Sicilia, però la nostra società era collegata in streaming e c’erano molte persone che guardavano le nostre partite e non solo. C’era la possibilità di vederla in diretta con queste nuove tecnologie che un tempo non ci immaginavamo neanche”.

Tornando sul campo da giocatore: chi fu l’artefice del passaggio alla Virtus Bologna?

“Loro erano interessati alle mie caratteristiche come giocatore. Ero moderno e atletico, con possibilità di sviluppo per una società che aveva grosse tradizioni, ambizioni, anche a livello europeo. La società poi vinse tre scudetti consecutivi in quel periodo. Io avevo iniziato a giocare in Nazionale nel ’92, esordendo con Sandro Gamba, e le mie caratteristiche fisiche anche a livello internazionale si facevano sentire. Alberto Bucci, che era il capo allenatore della Virtus, insieme ad Alfredo Cazzola, il presidente, avevano messo gli occhi su questa persona che ero io, che poteva adattarsi ad inserirsi in un ambiente già vincente, e anche nelle mie posizioni, da play, guardia o ala piccola (è capitato). Hanno pensato di contattare Torino e poi c’è stato il passaggio posticipato. Loro mi acquisirono nella stagione 1992-1993, dove rimasi a Torino nel mio sesto anno in cui feci 22-23 punti a partita. Non riuscimmo a salire per un’inezia. Salì Siena, che ha fatto la strada che conosciamo. Però feci una stagione super, e anche la squadra fece molto bene. In quegli anni avevo avuto Federico Danna, era rientrato Dido Guerrieri dopo l’ictus di qualche anno prima a Reggio Emilia. È stata una gran cosa. Queste persone, assieme a Riccardo Vigone che era il mio tutor, fecero sì che si ebbe questo passaggio. Arrivai per giocare il terzo scudetto consecutivo, quello sponsorizzato Buckler. Poi ci fu l’epopea Kinder”.

Era Kinder in cui, per tornare in tema di basket e tv, fece storia un celebre spot con Sasha Danilovic.

“Erano molto attivi da quel punto di vista. Adesso parlo di loro, ma la Ferrero è di Alba, a pochissimi chilometri da dove sono io. Erano molto interessati a livello internazionale. L’interesse per loro era più europeo, mondiale. Avere una squadra che partecipava all’Eurolega, aveva chance di vincerla, come poi è successo. Hanno messo quest’amministratore delegato, che era Roberto Dorigo, rimasto con noi e sempre presente a qualsiasi nostra partita, ogni tanto veniva a vedere gli allenamenti. Abbiamo fatto tantissimi spot, girato pubblicità, fatto tante cose. Abbiamo fatto anche un filmato notturno nel centro di Bologna, in Piazza Maggiore, due notti consecutive. Si giocava all’aperto, con delle comparse, ragazzi delle giovanili. Era una pubblicità per uno dei prodotti della Kinder con una conclusione con Sasha. Auguri di Natale, videocassette, auguri particolari per i nostri tifosi. È stato un periodo attivo anche da quel punto di vista. Il tutto si trascinava dietro altre possibilità, perché abbiamo potuto incontrare Armani prima che entrasse nel basket, Versace, altri nomi del mondo della moda che hanno operato nella zona di Bologna. Sono stati anni importanti perché eravamo sempre al centro dell’attenzione. Basket City negli Anni ’90 era veramente al top”.

Con una parabola come quella della Virtus di allora, tra campionati, Euroleghe, tiro da quattro e tanti altri episodi è difficile scegliere un ricordo.

“Il primo anno me lo ricordo perché entrai in un mondo completamente diverso. Avevo 23 anni, mi sono trasferito da Torino a Bologna con tanta voglia, energia ma anche consapevole di non sapere come avrei potuto reagire, quanto spazio avrei potuto trovare in campo. E in effetti il primo anno fu abbastanza complicato, nonostante fossi già in Nazionale maggiore. Però il mio carattere, la mia voglia e determinazione hanno contribuito, insieme alla lungimiranza dello staff e della società, oltre che delle persone attorno al nostro sistema, a dare un apporto importante. Poi certamente vai a vedere il ’98, dove si vinse la prima Eurolega, poi lo scudetto, poi le varie vittorie, le Coppe Italia (cinque nel periodo in cui c’ero io, alcune da capitano), poi il 2001 con il Grande Slam. Ce ne sono tante di cose di quegli anni, che si ricordano anche i tifosi. Proprio in questo periodo, sui social, causa questa problematica dello stop forzato mondiale, ci sono delle ricorrenze. Tra aprile, maggio e giugno quasi una ricorrenza al giorno, perché qualcosa abbiamo fatto. È normale e fa piacere”.

Dopo la Virtus Bologna sei stato uno dei primi italiani a prendere la via della Spagna. E chi l’ha fatto ha ottenuto anche risultati importanti.

“Il campionato italiano ha avuto degli anni in cui era il migliore in Europa a livello fisico, tecnico, di contratti, di media. Sono cose da tenere in considerazione. Poi c’è stato un periodo in cui il migliore era quello greco, in cui giravano tantissimi soldi (e hanno infatti dominato a lungo le Coppe), e poi gli anni della Spagna. Quando a Valencia mi hanno contattato era la fine del 2001. Avevano delle armi a loro favore nettamente superiori a quelle che c’erano in Italia. Ero rimasto a Bologna, nonostante tutto, perché avevo dei legami importanti, ero capitano della squadra, era nato mio figlio, s’era vinto tutto. Mi son detto ‘perché spostarsi adesso?’, però mi aveva fatto grande piacere il fatto che una società all’estero fosse interessata a me non solo a parole, ma anche a fatti. Io nel 2001 ero in scadenza di contratto. Sono stato tentato di farlo, ma non l’ho fatto. Sapevo che, sentendo qualche voce, c’era stata una migrazione dei giocatori migliori d’Europa, quasi tutti in Spagna perché c’erano delle possibilità dal punto di vista economico oltre a spiccare nelle varie competizioni, e quindi mi sono trasferito in Spagna. In quell’annata 2001-2002 a Bologna sono nate delle problematiche, un po’ di spazio, un po’ di età perché dal punto di vista atletico potevo essere considerato in fase declinante, e la società ha fatto un investimento nel mio ruolo su un giocatore più giovane di me, con del talento, delle capacità, che poi ha avuto problematiche fisiche e non è riuscito a svilupparle in tutto e per tutto. Alla fine di quella stagione mi sono trasferito in Spagna: Valencia mi aveva ricontattato perché Dante Calabria si era infortunato alla caviglia, e sentivano che avevo delle difficoltà, ci siamo incontrati e abbiamo poi deciso di fare il passaggio. Il loro era un club emergente: qualche anno fa ha vinto l’ACB, sta crescendo tantissimo, è in Eurolega da anni. Quell’anno vinse la sua prima Coppa europea, l’ULEB Cup (oggi EuroCup, N.d.R.) e quella successiva esordì in Eurolega. Poi mi hanno chiamato qualche settimana fa, fanno anche loro delle ricorrenze. Sono passati degli anni, ma ho fatto anche dei viaggi in Spagna e questo mi fa molto piacere, significa che ho lasciato un buon ricordo. Ho poi aperto la strada ad altri grandi nomi. Antoine Rigaudeau mi ha chiamato proprio per sapere che squadra e società potevano essere, poi infatti sono arrivati lui, Fabricio Oberto, Dejan Tomasevic, Alejandro Montecchia, Federico Kammerichs, Dimos Dikoudis. Ha iniziato ad arrivare gente di altissimo livello e continua a farlo. Juan Roig è veramente appassionato di pallacanestro e ci mette tanto di tasca sua, ha costruito l’Alqueria, che è una cosa clamorosa di cui parlano tutti. Ci sono otto campi che non sono palazzetti, ma palestre a disposizione dove puoi giocare a livello giovanile a tutte le categorie, con parquet, tutto. Attaccata c’è il Fonte de San Luis (noto anche come La Fonteta, N.d.R.) dove possono entrare oltre 9000 persone, e al tempo c’erano già”.

Il progetto dell’Alqueria che fa molto il verso alle strutture NBA.

“Ne hanno otto attaccati, a coppie, più quattro all’aperto. Sono suddivisi da teloni che si alzano, ma hanno le loro tribune, i loro tabelloni elettronici, la capienza, l’agibilità. Poi c’è la parte dedicata alla ristorazione, all’attività fisica. Hanno costruito un complesso sportivo dedicato alla pallacanestro e alla loro società che ha interessato moltissimo a livello europeo su quel che si stava facendo. Poi ha avuto dei riscontri e continua ad averli, e sono cose che fanno benissimo per la pallacanestro e sono di stimolo per il nostro mondo. In Italia è più complicato, perché la pallacanestro non sta attraversando un momento felicissimo, però ci sono ancora imprenditori importanti. Abbiamo parlato di Armani, per dirne uno, ma anche Segafredo con la Virtus, poi c’è Venezia che ha fatto bene negli ultimi anni, prima c’era stata Siena. Tanta carne al fuoco, però con meno risorse e impatto a livello mediatico. Quando ero a Valencia era un’intervista televisiva o radiofonica tutti i giorni. C’era moltissima gente interessata. C’era la Penya, i gruppi di tifosi che invitavano alle cene organizzate. Conoscevi un sacco di gente e le loro tradizioni. È stata un’esperienza, al di là degli infortuni che hanno tarpato le ali su tutto, interessante davvero. Meno male che l’ho fatta. Sono contento. La Spagna è molto simile a livello generale all’Italia, anche come capacità di parlare la lingua e farsi capire”.

Poi c’è stato il passaggio a Granada, allora appena arrivata in ACB.

“Infatti l’obiettivo della società, quando ci siamo incontrati, era quello. A Valencia avevo chiuso e ho trasferito la mia roba a Bologna, e poi sono sono tornato in Spagna di corsa, perché non era previsto. In quel periodo lì ero di nuovo in contatto con la Virtus, che era in A2. Era rinata dall’acquisizione di Castelmaggiore, ci siamo incontrati con Giordano Consolini, il presidente Claudio Sabatini. C’era Romanino Bertocchi, che ricordo con tantissimo affetto ed è mancato nell’ultimo periodo, era il presidente onorario, una persona vicina al club da decine e decine di anni. Abbiamo avuto contatti anche con altre società, però non si era arrivato a nulla di interessante. All’improvviso ha chiamato il direttore sportivo di Granada, facendo un’offerta anche economicamente neanche accostabile rispetto all’Italia. L’obiettivo era di rimanere nell’ACB, e ci siamo riusciti con due-tre giornate di anticipo. È stata un’esperienza molto carina, molto bella. Al di là del fatto che fosse la parte sud della Spagna, è stata davvero bella, particolare. Ho visto la Sierra Nevada, anche Granada stessa come città è molto gradevole, racchiude più culture. Poi ho incontrato Andrea Pecile, con cui abbiamo vissuto una stagione veramente divertente sotto tutti i punti di vista, anche interessante come risultati. C’era Sergio Valdeolmillos, l’ex capo allenatore, che ho incontrato piacevolmente anni fa ed è stato l’allenatore del Messico al Preolimpico di Torino, abbiamo fatto due chiacchiere davanti agli spogliatoi prima della partita che hanno giocato con la Nazionale italiana. È stato un anno super, abbiamo ottenuto il nostro risultato, sono riuscito a giocare la stagione senza problematiche a parte un piccolo infortunio muscolare. Mi ero ripreso da quel momento di sfortuna a livello fisico che mi aveva tarpato le ali a Valencia”.

Credit: Ciamillo

Quindi è arrivata Livorno, altro ambiente un po’ particolare: c’era il Basket Livorno, ma nell’aria si sentivano che non erano morte le anime di Libertas e Pallacanestro.

“È stato un anno particolare. Me ne sono reso poi conto, effettivamente. Conoscevo la piazza perché avevo giocato sia contro l’Allibert (Pallacanestro) che contro l’Enichem (Libertas), tra fine Anni ’80 e primi Anni ’90. La pallacanestro a Livorno aveva subito varie vicissitudini e la società in cui sono arrivato io era una cosa nuova che metteva un po’ insieme tutti. Però non è che piacesse così tanto e me ne sono accorto a fine stagione, quando abbiamo ottenuto la nostra salvezza e sono riuscito a giocare praticamente tutta la stagione senza problemi. Abbiamo fatto anche molto bene, vincendo a Treviso, in un momento in cui Treviso era una squadra di altissimo livello, e dando filo da torcere a tantissime squadre. A fine stagione mi dicono: ‘Oggi c’è una partita particolare’. Andrea Forti me l’aveva detto, era il mio procuratore in quel periodo in Italia, mi aveva dato una mano quando sono rientrato per capire come funzionasse il tutto dopo tre anni. Mi sono presentato al palazzetto dove si giocava una volta, e io lo chiamavo l’hangar per la sua conformazione, dove c’erano state tantissime battaglie sotto tutti i punti di vista, una su tutte quella celebre del 1989 con il canestro di Forti annullato perché fuori tempo, il tuffo di Bob McAdoo e tutto il resto, l’invasione di campo, risse, Roberto Premier che era circondato da una marea di persone, si liberò. Arrivo lì, e non c’è un posto in cui parcheggiare nell’arco di non so quanti chilometri. Io dico ‘ma che diavolo succede qua? Che sta succedendo?’, perché da noi persone nel palazzo nuovo venivano a vedere, però non facevamo il pienone al di là del fatto che era più grande. Sono entrato e sono rimasto allibito, perché c’erano due fazioni, la famosa tifoseria di Livorno su un lato e sull’altro, palazzetto strapieno, vecchie glorie che giocavano contro con le magliette di un tempo e sei entrato veramente nel clima di quel periodo, degli ultimi Anni ’80-primi ’90 in cui c’era questa enorme rivalità. E dici ‘e tutta questa gente dov’era dove giocavi?’, ma qui si entra in un discorso di dinamiche di cui si diceva poco fa. La società nella quale giocavo io non era proprio la stessa cosa, era nata dalle ceneri di queste due e c’era quindi una situazione un po’ particolare. Però è stato bello viverla. Livorno è sempre stata una piazza molto attiva dal punto di vista cestistico, ci sono venuti tanti allenatori e tanti giocatori ci sono cresciuti. È stato anche quello un anno per me importante. Ho avuto la possibilità di avere come allenatore un mio ex compagno di squadra, Paolo Moretti, e come direttore sportivo un altro, Claudio Crippa“.

Quella di Paolo Moretti è anche una bellissima storia umana.

“Assolutamente. Poi continua tuttora, perché ho avuto la fortuna di avere, con la Nazionale Under 20 due anni fa, agli Europei, suo figlio Davide che giocava nella squadra in cui ero viceallenatore. Partecipammo in Germania con capo allenatore Eugenio Dalmasson, Franco Ciani come assistente e poi c’ero io come terzo. Quei 40 giorni di raduno sono stati eccezionali, un’esperienza importante, la mia prima e purtroppo per ora anche ultima. Non abbiamo avuto un buonissimo risultato, abbiamo perso la finale per il 7°-8° posto giocando a sprazzi molto bene, ma avendo cattivissime percentuali al tiro, e se non segni mai fai fatica a vincere. Vedendo un po’ la pallacanestro giovanile a livello giovanile, dove vinse a mani basse Israele con giocatori già di una certa caratura che già giocavano e giocano a livello di Eurolega col Maccabi, di Coppe. C’è Deni Avdija che già ai tempi era presente, ed era un ’98. Non era nemmeno il migliore il campo, era uno dei 3-4 che facevano veramente bene per la loro squadra”.

Avdija che adesso è promesso tra le prime cinque scelte del draft NBA, e c’era anche Zoosman che poi è cresciuto bene.

“Questo dovremmo riuscire a capire qui in Italia: i giocatori si possono costruire, ma bisogna dar loro delle chance di stare in campo, l’opportunità di sbagliare, come l’abbiamo avuta noi ai nostri tempi. Ci sono giocatori che, purtroppo, hanno sempre avuto un po’ di problematiche. Ad esempio Davide Pascolo, quando è uscito da Trento, era un tipo di giocatore: a Milano non ha avuto grandi spazi, grandi minutaggi perché era circondato e la squadra era piena zeppa di giocatori di altissimo livello anche stranieri che dovevano giocare e tutto. Potrei dire anche di Awudu Abass, o Amedeo Della Valle, o altri che ora mi sfuggono, che hanno avuto problematiche per via dello spazio non così aperto”.

Per Pascolo fu il secondo anno a non andare troppo bene.

“Lo vedevi nella faccia che non era contento, tranquillo, sereno. A un certo punto fu sostituito e lo vidi con la testa giù in panchina, e faceva dispiacere perché è un giocatore di talento, fuori dagli schemi anche dal punto di vista dei movimenti, che per la Nazionale era un giocatore veramente importante in quel momento”.

Della Valle è un caso forse ancora più clamoroso. Pianigiani lo aveva messo ai margini delle rotazioni, stava per andare in Germania, poi è arrivato Messina che lo ha voluto fortemente e l’ha rivitalizzato, prendendo anche Moraschini che era già in fiducia.

“Alla fine gli allenatori sono quelli che hanno uno schema nella testa, non solo di gioco. Hanno un’idea di cosa potrà essere il giocatore, o la conformazione della squadra con quelle caratteristiche. Poi intervengono tante situazioni, come la condizione fisica, l’inserimento dei giocatori, gli infortuni, le pressioni che in un posto non hai e a Milano hai. Cambia tutto. A Torino avevo una pressione minima, per la situazione di gioventù. A Bologna, invece, devi vincere. Mi ricordo quando si presentò Cazzola negli spogliatoi, facemmo una riunione in spogliatoio. Eravamo primi in campionato. Però a livello di Coppa dei Campioni c’erano risultati altalenanti. Lui venne a parlarci, disse: ‘Non sono affatto contento di come sta andando in Europa. Vi faccio i complimenti per il campionato, siete primi, ma questo era già atteso. Lo sforzo che è ora stato richiesto è quello di far bene in Europa’. Ci venne rimarcato in maniera abbastanza importante e i risultati arrivarono, non immediatamente, ma di lì a poco”.

Prima del ritiro, c’è un’altra città che hai toccato che ha una storia un po’ particolare: Firenze. Ha palazzetto e potenzialità, ma negli ultimi anni non è ancora decollata, benché trent’anni fa ci fosse l’alto livello.

“Io ricordo il Mandela Forum gremito di gente negli anni della Neutro Roberts, c’erano Mandelli e compagnia bella che facevano veramente bene. La pallacanestro era molto sentita e lo è ancora. Ci sono i momenti in cui le squadre hanno il loro tempo, poi avvengono delle cose anche non prevedibili. Le persone interessate si stufano, o hanno problemi dal punto di vista economico. Questo è successo a tante società. Con la Serie B negli ultimi tre anni ho visto che c’è un movimento importante, sempre nelle prime, Andrea Niccolai che allena, un mio ex avversario e compagno in Nazionale. Firenze è sempre stata una piazza molto mossa sul settore basket”.

In tema di ricordi, non si può non parlare del percorso in Nazionale. Glorioso, all’interno di un gruppo glorioso, che forse avrebbe potuto ottenere ancora di più, oltre alla finale europea del 1997 e al trionfo del 1999. A Sydney 2000 ci fu quel quarto con l’Australia…

“Ma anche i Mondiali del ’98. Abbiamo fatto bene, ottenuto tanto. Nel 2001, quando ci sono stati gli Europei in Turchia, non ho partecipato e Boscia (Tanjevic, N.d.R.) se la prese veramente. Tutte le volte che ci vediamo scherzando ricorda sempre che fummo io e Carlton Myers assenti nel momento in cui potevano ancora esserci risultati importanti. Qualche cosa in più si poteva ottenere a Sydney, dove la squadra di casa ci ha eliminati ai quarti di finale. E l’Australia nella prima partita di preparazione l’avevamo battuta di 40 punti a Roseto. Sono quelle cose che ti fanno anche pensare. Magari non si è dato troppo peso a questo rientro importante, che per me era importante, perché per me è stata la prima e ultima apparizione all’Olimpiade, ma anche il coronamento di una carriera. Sono riuscito a partecipare a un’edizione gigantesca, quella di Sydney, in un posto dove non si capita così spesso. Qualche recriminazione rimane, ma guarderei sempre il bicchiere mezzo pieno. Abbiamo riportato la Nazionale italiana, con tutti gli allenatori da Messina a Tanjevic, ai livelli che meritava, magari con risultati anche inaspettati. Non credo che ci dessero per vincenti all’inizio degli Europei in Francia nel 1999. Forse non ci pensavamo nemmeno noi, ma sapevamo di avere delle chance, sono andate bene le cose e dopo 16 anni si è portato a casa il titolo con la qualificazione alle Olimpiadi, che non arrivava dal 1984″.

Poi ci fu quell’immenso caos dopo la Croazia.

“In quel momento personalmente, e fra l’altro venivo da un infortunio e non giocai benissimo nella prima fase, ma era un progetto già stabilito. Avevamo parlato con Boscia perché dovevo entrare in condizione. Avendo perso un paio di settimane di preparazione, entrare in condizione era la cosa più importante non solo per me, ma per tutta la squadra. Nel ’99 siamo stati in condizione al momento giusto, cosa che purtroppo nel 2000 non accadde. Andammo in condizione perfetta prima. Poi siamo andati un po’ scemando nel corso della manifestazione, che metteva un altro tipo di pressione”.

Nel ’98, ai Mondiali, l’Italia giocò contro la ‘Dirty Dozen’, la squadra degli americani priva di NBA per il lockout, e si arrivò vicini alla vittoria con inversione di fischio nel finale.

“Sono stati gli anni in cui c’è stata una svolta. L’abbiamo fatta noi squadre europee in questo periodo. Pochissimi andavano, anche solo a fare dei provini in Summer League, ma difficilmente ottenevano un contratto. Se lo ottenevano stavano in disparte. I primi, almeno dei nostri, ad andare furono Stefano Rusconi e Vincenzo Esposito. Vincenzino ebbe anche qualche attimo di gloria e anche di più, con una serie di canestri importanti dei suoi a New York, con i Toronto Raptors. Anche in Canada c’erano tantissimi italiani, e giustamente la franchigia ne aveva tratto le giuste considerazioni in termini di cose da fare firmando Vincenzino. La gente pensava che in Italia si giocasse solo a calcio. Gli americani del Mondiale ’98 si permisero, con l’appoggio di tutto il sistema, di fare il riscaldamento nella nostra metà campo. Noi già lo stavamo facendo lì, arrivarono dopo, noi stavamo muovendoci, facendo la ruota, e alla fine abbiamo dovuto spostarci noi tra parecchie arrabbiature. In quel momento la pallacanestro americana dominava. Però quando ci sono state le prime sorprese, Nazionali europee e non che davano filo da torcere o vincevano contro le squadre americane di NBA, allora cosa succedeva? La pallacanestro stava mutando? Di certo quella europea ha preso spunto da quella americana, siamo cresciuti un po’ a tutti i livelli. Adesso se vedi quanti giocatori europei ci sono in America, capisci che il mondo è cambiato. La pallacanestro non è solo chi l’ha inventata, ma anche il resto del mondo con tutte le sue facce di ogni continente che sono approdate in NBA e hanno fatto bene”.

Qual è l’opinione sulla pallacanestro italiana di oggi, con il suo bisogno di avere l’anello dei giocatori di Eurolega?

“A livello giovanile facciamo molto bene, come Nazionale e anche come femminile. C’è questo passaggio dal livello giovanile a quello senior che è come una mazzata. Molti giocatori lì si perdono per tante motivazioni. Abbiamo forse meno testa di un tempo, forse è più difficile la pallacanestro di adesso, o ci vogliono certe caratteristiche che mancano. Non lo so. So che in alcuni posti sono state utilizzate agevolazioni. In Italia non così tanto. In Turchia Boscia aveva applicato una certa regola, avendo portato la pallacanestro turca ad altissimo livello. C’erano in campo sempre tre giocatori turchi. Alcuni senior, molti giovani. Hanno potuto giocare. In Spagna il giocatore spagnolo di formazione era abbastanza protetto. Navarro se lo sfioravi era fallo. Qua in Italia è il contrario. Quando ho esordito, mi hanno fischiato tre falli perché marcavo Michael Ray Richardson (per tutti Sugar, N.d.R.). C’erano, per carità, avevo 17 anni e Richardson non è che fosse proprio il giocatore più facile. Però non è che il giocatore italiano fosse così, diciamo, tutelato (che potrebbe essere un termine corretto senza che nessuno s’offenda). Si potrebbe tutelare il patrimonio di giocatori che le società creano con sforzi economici, sacrifici. È una cosa importante. Però bisogna farli anche stare con i piedi per terra, e lì bisogna cambiare qualcosa. Molti ragazzi giovani nelle società attuali non hanno dei punti di riferimento come ne potevamo avere noi. Quando sono arrivato io in prima squadra a Torino c’erano 5-6 giocatori italiani veterani, forse anche di più. Alzi un attimo il capo e arriva la bastonatina. Quando ci sono 5-6 stranieri, magari sono anche giovani e non gli americani di un tempo, professionisti di un certo tipo impostati in una certa maniera. Qualcuno si faceva la vita propria, ma ce n’erano di quelli che si inserivano tipo Darryl Dawkins che andava a giocare a bowling con i tifosi, veniva a vedere le partite dei nostri junior. Sono tutte cose che modificano il punto di vista della situazione. Quindi una protezione, ma anche con un certo tipo di rigore, rispetto per le figure, che forse è quello che manca, nel senso che ‘sì, ho fatto bene questa partita ma ne devo fare altre 500 e ho fatto una piccola parte, non devo vivere sugli allori’. Poi questo sistema tra procuratori e giochetti di vari tipi non è sempre di aiuto, o i salti troppo grandi per loro, andare a giocare in contesti non utili perché una categoria maggiore può sembrare un paradiso e magari diventa un purgatorio, se non un inferno, perché non sei ancora preparato dal punto di vista fisico e mentale a reggere certi urti. Quindi queste sono tutte le cose da tenere in considerazione. Abbiamo un movimento, bisogna continuare a cercare di fare in modo che sia sempre più grande, anche perché è divertente. Lo vedo sempre con i ragazzini del settore giovanile che seguo qua. Questa mattina un ragazzo Under 13 mi ha mandato dei video che gli avevo chiesto, con degli esercizi che gli faccio fare, con l’esecuzione. Io sono rimasto sorpreso perché l’ho visto nettamente migliorato rispetto a qualche mese fa, quando eravamo sul campo, o all’anno scorso quando veniva a fare qualche allenamento con l’Under 13 stessa. Sono cose che ti fanno piacere, però non è detto che tutti siano campioni. Ci sono vari livelli e il nostro è quello che è. Poi è importante per la nostra zona, per il nostro presidente, per gli sponsor che hanno dato una mano in questi anni e per le famiglie che sono coinvolte. La passione continua, che sia ad Alba, a Bra, a Torino, a Bologna, a Valencia. È sempre pallacanestro, questa è stata la storia della mia vita e mi fa piacere ancora esserci da casa”.

Com’è nato il soprannome Picchio?

“È dovuto al professor Dido Guerrieri. Lui dava a tutti i suoi giocatori, anche a quelli più affezionati o più giovani che stavano crescendo e imparando a volare (basso) un soprannome. A me ha dato Picchio perché mi vedeva che ero piccolino, gracilino, con il nasone abbastanza importante e un movimento, mentre giocavo, un po’ così di accompagnamento della testa, poi penetravo sempre, quasi come a scavare dentro un albero, un riparo, una casa come fanno i picchi. Ma soprattutto in riferimento a Woody Woodpecker, che era Pajaro Loco in spagnolo e Picchiarello in italiano. Dawkins mi chiamava più Woody che altro, perché non riusciva a dire Picchio! (ride) Però sono cose diverse. Poi m’è piaciuto Woody Woodpecker, il picchio con il crestino rosso dei cartoni animati, perché faceva sempre casino, così come io quando entravo creavo sempre un po’ di panico per gli avversari, creavo delle situazioni anche un po’ fuori dall’ordinario, com’era il personaggio del picchio. Questa è una cosa che mi è sempre rimasta appiccicata; il professor Guerrieri poi sono stato fortunato ad incontrarlo perché ho avuto un sacco di spazio con lui e non si tirava mai indietro, lo dava a tantissimi ragazzi dando loro la possibilità di sbagliare. Anche Riccardo Morandotti aveva il suo soprannome, lo aveva Stefano Vidili, lo aveva Carlo Della Valle, lo avevano tutti”.

Se si potesse fare un quintetto ideale della carriera, quale sarebbe?

“Domanda difficile, però di giocatori ce ne sono stati tanti. Partirei da Darryl Dawkins e Rashard Griffith come numeri 5, giocatori veramente dominanti quando ho avuto la possibilità di giocarci assieme. Per i 4, Joe Kopicki che era un giocatore che se lo vedevi non pensavi fosse così determinante a livello di campo, nonostante non fosse un atleta e sembrasse sovrappeso, ma aveva delle capacità incredibili. Poi Kevin Magee era allucinante come giocatore, in quegli anni lì era un altro veramente forte. Poi ti guardi attorno e in quella posizione hai Matjaz Smodis, David Andersen. E sto parlando solo di stranieri. Perché se passiamo a quelli italiani ci sono Gregor Fucka, Giacomo Galanda. È difficilissimo riuscire a fare una squadra. Con i 2 e i 3 poi puoi variare tra Manu Ginobili e Sasha Danilovic. Antoine Rigaudeau invece lo metterei come 1. Poi Carlo Della Valle era atipico, piemontese della provincia di Cuneo, 1.97 e giocava play anche lui, che pure non era chissà quale atleta, ma aveva una visione di gioco eccezionale. Ancora come 2/3 Andrea Meneghin, come 2 Hugo Sconochini, Carlton Myers, Henry Williams, che marcavo praticamente sempre io ed era un rebus abbastanza difficile da risolvere, ma alcune volte ci si riusciva. Sono veramente tanti, e se ho la possibilità di nominarli tutti questi giocatori significa che ho avuto la fortuna di giocarci con e contro, di sfidarmici sul campo, nel fair play e nello scopo finale del gioco che fa sempre piacere. Poi ho avuto la possibilità di giocare contro un team americano a Sydney, con Vince Carter nei migliori anni della sua carriera a livello atletico e fisico. Jason Kidd, Alonzo Mourning. Un’infinità di giocatori. Ho conosciuto anche Magic Johnson, perché con Orlando Woolridge era compagno di squadra. Quando era qui è riuscito a portarcelo negli spogliatoi quando ha fatto il Pepsi Tour al PalaMalaguti (oggi Unipol Arena, N.d.R.), e lui è venuto in Italia a Bologna in quel momento. Poi ci sono altre centinaia di giocatori che ora non mi vengono in mente, ma che potrebbero formare veramente una squadra importante. Poi mi piazzo anch’io a dar loro una mano perché avevo le mie specialità, le mie caratteristiche e mi sarei saputo adattare come ho fatto nei vari anni con le diverse squadre che ho avuto la fortuna di citare”.

Fucka potevi metterlo in qualunque ruolo.

“Poi lui era ambidestro, sapeva giocare con entrambe le mani, concludere in avvicinamento sia con la destra che con la sinistra, anche eventualmente da 2-3 metri. Altezza, tecnica. Aveva una determinazione, lo vedevi allenarsi e ha cambiato anche con il suo arrivo. Lui è ’71 come me, giocavamo già insieme nelle Nazionali giovanili e ovviamente anche lì per noi era un’arma di un certo tipo. Poi ha fatto la sua carriera in Italia e anche a Barcellona”.

E nemmeno Carter e Garnett riuscivano granché a tenerlo nella partita con gli USA alle Olimpiadi 2000.

“In quella partita giocammo bene il primo tempo, che era ancora a 20 minuti. Siamo stati sempre in partita. Poi loro hanno iniziato a usare la loro ‘tattica’ di usare il fisico in maniera abbondante, e ovviamente finché ne abbiamo avute abbiamo tenuto botta e poi siamo andati sotto. Quando loro usano le maniere forti, l’atletismo, il peso, in maniera anche non corretta, se gli arbitri fanno finta di niente, chiudono un occhio, diventa complicato venirne a capo. Vince Carter in quegli anni era Air Canada. Passava sopra la gente. Frederic Weis si è trovato lì sulla strada del decollo e purtroppo lui gli è passato sopra. E anche per lui vale il discorso di Andrea Forti, perché ricordano sempre ‘il canestro era buono, non era buono'”.

Facile che non ne voglia più sentir parlare.

“Esattamente, e Weis la stessa cosa. Qualche tempo fa fecero vedere i migliori schiacciatori di tutti i tempi e Vince Carter l’hanno posizionato al numero 1. Quando hanno fatto il video una delle schiacciate che hanno messo era proprio la ‘Dunk de la Mort’ di Sydney 2000, con questo decollo e poi atterraggio sopra il ferro”.

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Credit: Ciamillo

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