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Storia delle Olimpiadi: il mito di Ondina Valla

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Integrazione e uguaglianza rappresentano da sempre due obiettivi primari della pratica sportiva, dove atleti di genere, età, etnia, cultura e qualità fisiche diverse hanno l’opportunità di mettersi in mostra e di prendere parte, ciascuno nella propria categoria, alle massime competizioni globali. Lo sport rimuove quegli ostacoli che la vita di tutti i giorni, nonostante secoli di progresso, non è ancora riuscita ad eliminare.

Risulta comunque difficile applicare questo discorso alle Olimpiadi di Berlino 1936, ideate specificatamente per esaltare la cosiddetta razza ariana e la folle ideologia nazionalsocialista che devasterà il mondo nel decennio successivo. Eppure, al di là del mito di Jesse Owens che sconfisse sul campo (o meglio, in pista) una presunta superiorità etnica, quei Giochi Olimpici abbatterono un’altra barriera: Ondina Valla fu infatti la prima donna italiana a vincere una medaglia d’oro nella storia dei cinque cerchi.

Sorvoliamo sull’ovvia strumentalizzazione che un’altra dittatura, folle tanto quanto quella della croce uncinata, applicò logicamente al suo trionfo, come ad ogni altro italico successo dell’epoca. Il mito di Ondina è e resta tale al di là di obbligati saluti romani e convinzioni personali. La ragazza nasce a Bologna, prima femmina dopo quattro maschi, il 20 maggio 1916, nel cuore di uno sconvolgente conflitto mondiale: si chiama Trebisonda, in omaggio alla città turca di Trabzon che, alla pari della Samarcanda di Roberto Vecchioni, evoca viaggi, misteri e fascino. Madre Natura le dona un fisico di tutto rispetto, quasi “campagnolo” nel senso più orgoglioso del termine: 173 cm di altezza e 66 chili di peso le permettono, sin da giovanissima, di primeggiare nell’atletica, dal salto in alto alla velocità pura sino alla corsa ad ostacoli.

Sulla sua strada incontra, per almeno un centinaio di volte, la concittadina Claudia Testoni, di pochi mesi più esperta: come in ogni rivalità di quello sport in bianco e nero, quanto avviene sul campo di gara non inficia la nascita di una splendida amicizia che accompagnerà due vere Signore dello Sport sino alla fine dei propri giorni. Così, un passo dopo l’altro Ondina, il cui soprannome deriva da un errore di un giornalista che aveva storpiato Trebisonda in Trebitonda, si guadagna la qualificazione per Berlino 1936 negli 80 metri ad ostacoli. Nei primi giorni di agosto, i turni eliminatori vengono agevolmente sbranati sia da lei, sia dalla solita Testoni, con tanto di 11.60 marchiato dalla futura campionessa che eguaglia il record del mondo seppur con la dicitura “ventoso”.

Giovedì 6 agosto c’è la finale: le due azzurre hanno qualche acciacco fisico, ma non possono permettersi di perdere l’appuntamento che, già allora, valeva una carriera. Claudia parte forte, Ondina rimonta senza guardare le avversarie, ma con gli occhi fissi solo sul traguardo: in quattro arrivano vicine, eppure sulla sua vittoria non ci sono dubbi. Qualche millesimo tradì invece Claudia Testoni la quale, con i legittimi dubbi sul fotofinish di quell’epoca, perse anche argento e bronzo dovendosi accontentare di un amarissimo quarto posto. La Marcia Reale risuona all’Olympiastadion: Ondina Valla è la prima donna italiana ad aver vinto una medaglia d’oro olimpica.

I problemi alla schiena le impediscono, più avanti, di ripetere certi risultati, pur proiettandola in una carriera di assoluto rispetto. Nel Dopoguerra, Ondina detta Il sole in un sorriso dai giornali dell’epoca si eclissò con l’umiltà dei grandi campioni, trasferendosi all’Aquila e tornando alla ribalta delle cronache solo per il doloroso furto di tutti i suoi allori avvenuto nel 1978: sei anni più tardi, il presidente Fidal Primo Nebiolo la omaggiò di una fedele copia della medaglia più bella. Il Paradiso dei Grandi la chiamò nel 2006, in un’altra epoca, un altro momento, un altro mondo da quello in cui era cresciuta e aveva trionfato.

Storia delle Olimpiadi, prima puntata: Dorando Pietri

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marco.regazzoni@oasport.it

Foto da: Virtuspedia

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