Ciclismo

Mondiali ciclismo su pista: bilancio deludente e due problemi importanti

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Il quinto posto di Marco Coledan nell’inseguimento individuale costituisce l’unico lampo positivo di una spedizione azzurra ai Mondiali di ciclismo su pista per il resto veramente deludente. Anche il quartetto maschile tutto sommato esce a testa alta dalla Colombia, ma l’impressione è che in questa specialità si sia ulteriormente alzato il livello e dunque, come testimoniato dalla prova iridata, ad un pur sensibile miglioramento cronometrico non corrisponde necessariamente un avvicinamento delle posizioni di vertice.

Elia Viviani e Giorgia Bronzini costituivano le carte migliori tra corsa a punti e scratch: il veronese, poi protagonista di una buona americana, ha presumibilmente pagato una condizione non ottimale, mentre la campionessa piacentina, nonostante un grande sforzo, ha perso il treno delle medaglie nelle fasi finali della points race; è anche vero che non possono essere sempre Viviani e Bronzini a salvare la nazionale, peraltro in specialità non olimpiche. Negativo l’omnium maschile, d’altronde Francesco Castegnaro era tra i più giovani al via e non c’erano motivi, alla luce delle prestazioni stagionali, per aspettarsi molto di più; al solito totalmente inesistenti nella velocità, tanto individuale quanto a squadre, ci si attendeva qualcosa in più dal quartetto femminile, che invece ha sfornato una delle peggiori prestazioni degli ultimi anni anche alla luce di alcune scelte di formazione (come l’esclusione di Beatrice Bartelloni) che hanno fatto discutere, per quanto indubbiamente il Commissario Tecnico avrà avuto ottime motivazioni nell’effettuare questa selezione. Insomma, un’esperienza nel complesso davvero negativa, termometro una volta di più di un movimento che fatica a risorgere dalle proprie ceneri.

Non è nostro compito indicare i nomi dei responsabili di questo momentaccio: anche perché, in questo benedetto, assurdo Bel Paese, il gioco della scaricabarile è tra i più diffusi e tendenzialmente chi ha la maggior quota di responsabilità non paga mai per le proprie colpe. Certamente, non è colpa degli atleti, che rendono sempre al massimo, e forse lo è solo in minima parte dei tecnici azzurri, che non hanno a disposizione troppa qualità. Piuttosto, è bene indicare quali siano queste colpe, ovvero le motivazioni che portano il ciclismo su pista italiano a rivestire un ruolo davvero triste nell’arena internazionale. Anzitutto, la mancanza di strutture: problema vecchio, che non può essere stato risolto con l’inaugurazione del pur splendido velodromo “Fassa Bortolo” di Montichiari, unico impianto coperto d’Italia. Gli altri teatri della pista, purtroppo, cadono a pezzi: là dove Messina e Maspes battagliavano negli anni Sessanta, o in tempi più recenti la generazione di Martinello dava nuovo (e ultimo) lustro a questo sport, oggi ci sono macerie e rovine. Ma non può essere tutta lì la questione, d’altronde dal mondo degli sport invernali possiamo mutuare fior di esempi di specialità prive di impianti in Italia, eppure con gli azzurri tra i migliori al mondo. Si è parlato spesso, anche su questo sito, di “integrazione strada-pista”; ora è il momento di declinarla meglio. A nostro modo di vedere, risulta pressoché impossibile svolgere entrambe le attività per tutta una carriera: anche perché la stagione dei velodromi e quella della strada sono davvero complementari e vanno ad occupare, praticamente, tutti i 12 mesi di un anno solare, qualcosa di insostenibile per un atleta. Non stupiamoci se Elia Viviani e Marco Coledan, quest’ultimo unica nota davvero positiva della derrota di Colombia, sono di fatto gli unici professionisti in squadre di un certo livello ad aver partecipato ai Mondiali; o meglio, non stupiamoci se poi non arrivano le medaglie, perché spesso si trovano a gareggiare con professionisti della pista, che ad una certa età possono scegliere di dedicarsi unicamente ai velodromi e lo possono svolgere come professione perché le federazioni di paesi stranieri, aiutate dagli sponsor, investono molto di più in questo settore. L’integrazione va spinta, incentivata e motivata a livello di categorie giovanili, quando invece troppi direttori sportivi vedono la pista come il fumo negli occhi; ad un certo punto, poi, bisogna scegliere, perché la stessa pista ha raggiunto standard di professionismo molto elevati.  Diverso il discorso nel femminile, dove il professionismo non esiste vergognosamente nemmeno per le atlete della strada, e dunque qui è più frequente trovare atlete che per tutta la carriera portano avanti entrambe le specialità; come sta facendo Giorgia Bronzini, come fanno tutte le azzurre peraltro autrici di un Mondiale non certo positivo; qui l’unica nota realmente positiva proviene dal settore giovanile, reduce da una serie di successi internazionali, che potrebbe garantire già nell’immediato un certo innalzamento della qualità media della nostra “pista rosa”, a partire dall’inseguimento a squadre.

Si tratta dunque di problemi importanti, forse mai affrontati veramente in particolar modo a livello federale; certamente, però, se si vuole avere un movimento in grado di qualificare un buon numero di atleti a Rio 2016 e di ottenere in quell’occasione risultati perlomeno dignitosi, così non si può andare avanti. Insomma, come direbbe il buon Gino Bartali, ricordato nei giorni scorsi perché sua moglie Adriana lo ha raggiunto nel Paradiso degli Eroi, “gli è tutto sbagliato, tutto da rifare“.

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1 Commento

  1. ale sandro

    3 Marzo 2014 at 14:30

    Analisi molto corretta e quanto mai esaustiva della situazione. Mi permetto di aggiungere a supporto ulteriore del discorso “specializzazione” ,come Coledan,il migliore a Calì per risultati, abbia in sostanza confermato questo dicendo che è soprattutto da una stagione e mezzo, due al massimo che sta dedicandosi molto di più alla pista che alla strada. I risultati per quel poco che conta si sono comunque visti. Continuo a pensare che i talenti junior e i ventenni devono sicuramente provenire dalla multidisciplinarietà, ma che per almeno uno o due quadrienni (nel caso di chi va più forte) devono dedicarsi principalmente alla pista dietro programmazione specifica della federazione. Il lavoro che verrà fatto in pista, una volta terminato il periodo in cui si farà il punto della situazione, potrà sicuramente tornare utile all’attività su strada, visto che comunque si parla di ragazzi che a quel punto avranno 24-26 anni , ancora pienamente in tempo per poter fare una carriera più che valida come passisti, cronomen o velocisti nelle prove su strada.
    La sensazione è che se diversi talenti, un nome per tutti Andrea Guardini ,campione eurojunior del keirin qualche anno fa, fossero stati coinvolti in un progetto come questo che ho appena espresso,la situazione sarebbe ben diversa. Non dico da avere già medaglie in tasca, ma sicuramente da comparire tra i primi dieci di tutte le prove olimpiche, permettendo così all’Italia di avere atleti qualificati. Basterebbe molto meno di ciò che molti pensano per avere questo tipo di risultati.
    Vedremo quali saranno i commenti, e soprattutto le prese di posizione di chi si dovrebbe impegnare per recuperare questa problema e mi riferisco a Di Rocco e Malagò soprattutto.

    • Marco Regazzoni

      3 Marzo 2014 at 14:51

      Esatto, condivido. Il nome di Andrea Guardini non è per nulla casuale, ma ormai è velocista da strada e stop: del resto, chi glielo farebbe fare di rinunciare alle certezze, in primis economiche, dell’attività per uno squadrone internazionale e per i primi delle vittorie? Su pista, in Italia, tutto questo non è possibile; non c’è un circuito nazionale di livello (e di premi) interessanti e non ci sono le minime certezze per chi vuole fare solo questa attività.

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