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‘Cogito, ergo sport’: Jesse Owens, il Servo divenuto Padrone

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“Il museo è uno dei luoghi che danno l’idea più elevata di uomo“.
André Malraux

Museo, il luogo che racchiude in sé la concretizzazione dell’emozione, uno spazio attivo che dialoga con l’uomo provocando reazioni più o meno previste.
Una sorta di palcoscenico, di stadio con una funzione sociale e al contempo poetica, capace di fornire quella possibilità di contemplazione che la rende fonte di ispirazione e conservazione di un intero universo interiore.
In questo senso il museo è “olimpico” perché dà al mondo la possibilità di vedere e di veder-si, di emozionarsi e divertirsi, di conoscere, sentire, capire, crescere, vivere. Esiste già intrinsecamente questo legame tra la “casa delle Muse” e i Giochi, nati in onore del padre delle Ispiratrici per antonomasia, Zeus.

Alessandro Salucci, “Allegoria con la Casa delle Muse”

Come l’arte, la grandezza dello sport risiede in questo, nell’essere tempio di contemplazione per un pubblico estasiato, luogo di isolamento per l’atleta concentrato nella gara e, insieme, mezzo di partecipazione grazie alla funzione umana e sociale che rappresenta. L’importanza da sempre attribuita alle Olimpiadi sta nel fatto che il guardare non è mai una mera osservazione che si conclude al fischio dell’arbitro o all’inno del vincitore; la gara non è mai uno spettacolo fine a se stesso che si compiace del risultato finale; l’atleta non è solo il campione che, se si dimostra il migliore, dona alla Nazione una medaglia. Ogni passo verso il traguardo, ogni grido di gioia, ogni smorfia di delusione portano con sé un carico umano, oltre che sociale, in grado di trasmettere e smuovere molto più di un sorriso o un applauso. Valori, ideali, messaggi vengono filtrati attraverso una corsa ma arrivano al pubblico con la stessa velocità di uno scatto dei 100 metri; con la stessa intensità dello scatto di Jesse Owens in quel lontano 1936, nelle celebri Olimpiadi di Berlino, ricordate per aver immortalato l’umiliazione del Fuhrer in quell’espressione amareggiata dopo la vittoria di un nero nella patria del popolo ariano. Uno scatto, i 100 poi i 200 metri, una staffetta, un salto e il nipote di schiavi neri dell’Alabama conquista quattro Ori, quattro medaglie che valgono ben più di un primo posto, che vanno oltre la vittoria della nazione americana.

Quell’Olimpiade divenne il museo della rivincita di intere popolazioni discriminate per il colore della pelle, per l’umiltà delle proprie origini, la povertà della famiglia, il razzismo e l’antisemitismo imperante in quegli anni e in quel Paese ma esteso ben oltre.

Ho sempre amato correre: è qualcosa che puoi fare contando soltanto su te stesso, sulla forza dei tuoi piedi e sul coraggio dei tuoi polmoni”, e quel messaggio Owens riuscì a trasmetterlo al mondo intero che vide il servo diventare signore, secondo quella dialettica hegeliana per cui il primo ha cercato e infine trovato lo sguardo e il riconoscimento dell’altro, grazie a quell’autocoscienza che l’ha reso consapevole di sé e dunque libero.

Poco importa, oggi, se persino il presidente americano Roosvelt fece quello che lo stesso Owens definì “affronto”, negando al campione, al servo divenuto signore, l’invito alla Casa Bianca perché, anche ora che Jesse Owens è morto, le sue imprese hanno molto da raccontare e insegnare alla gente. I trionfi in quello stadio furono e rimangono un museo che “introduce la gente in un mondo speciale, in cui le opere dei morti dialogano con gli sguardi dei vivi, in un confronto duraturo e fecondo” (Roberto Peregalli).

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