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‘Cogito, ergo sport’: Dorando Pietri, una squalifica d’oro

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“Non è forte chi non cade mai, ma chi cadendo trova la forza di rialzarsi”.
(J. W. Goethe)

Quella era la sua Olimpiade, la sua maratona, la sua vittoria, se solo la forza di rialzarsi l’avesse trovata da solo, senza aiuti, senza soccorsi.

Dorando Pietri aveva 22 anni quando, in quell’afoso luglio 1908, varcò per primo l’ingresso nello stadio londinese, accolto dall’ovazione generale, un’ovazione senza colori né bandiere perché non esiste discriminazione di sorta verso un campione che compie l’impresa. Pietri, a differenza della maggior parte degli atleti di quella gara, ritiratisi lungo il percorso, aveva resistito ai ritmi altissimi, al caldo, alla fatica ed era giunto a un passo dal traguardo: un ultimo giro, quello trionfale, dinanzi alla folla acclamante, innamorata di quel giovinetto che non aveva mollato.

Cyril Connolly scriveva che “la vita è un labirinto nel quale si prende la strada sbagliata prima ancora di aver imparato a camminare”. Dorando Pietri aveva invece imparato a correre come nessun altro a quel tempo, eppure prese la strada sbagliata. Stremato, cominciò a percorrere la pista nel senso inverso e fu allora che in molti, medici e giudici, intervennero per correggere il passo, arrivando poi a sorreggerlo e rialzarlo dopo i continui sbandamenti e le cadute di un atleta distrutto dalla fatica e senza più la minima forza fisica e mentale per concludere l’olimpiade.
Alcuni parlano di doping, altri attribuiscono la colpa dell’accaduto ad una maratona che, per la prima volta, aggiunge ai 40 altri due chilometri per fare in modo che il percorso partisse dal castello di Windsor e terminasse davanti al palco reale. Ciò che di fatto avviene è la squalifica per un Dorando Pietri che, sorretto da chi lo vide accasciarsi a terra poco prima di far propria quella medaglia, a stento tagliò il traguardo, accasciandosi a terra subito dopo.

Arrivo di Pietri al traguardo, Olimpiadi di Londra, 1908

Adam Smith ritiene che è possibile simpatizzare col dolore o la gioia altrui quanto più si è in grado di porsi nei suoi panni. Un intero pubblico sportivo pare dunque che si sia sentito a suo modo un Dorando Pietri, regina Alessandra compresa che, oltre a svenire dopo la caduta dell’atleta, propone una premiazione “alternativa”, una coppa che il mondo di inizio ‘900 aveva già attribuito all’italiano.

Pietri e la Regina Alessandra

Chi mai avrebbe ricordato, dopo più di un secolo, un maratoneta come tanti, un oro olimpico qualsiasi, se il quasi campione di Correggio non si fosse macchiato di una beffarda e lì per lì amara sorte come quella che lo colpì durante la IV edizione dei Giochi?
Probabilmente oggi chiunque, al posto di Pietri, avrebbe preferito che le cose fossero andate a quel modo perché la fama tende a superare di gran lunga qualsiasi altro tipo di soddisfazione. Ma ciò che più colpisce di quell’evento è stata la reazione popolare di una spontanea quanto immediata solidarietà collettiva, un affetto gratuito verso un atleta che gareggiava fuori casa, che non era nessuno fino ad allora e che si meritò quell’appoggio e quella partecipazione solo grazie allo spirito di sacrificio, alla tenacia con cui aveva lottato, al desiderio di resistere, di colpire la meta tanto ambita, di portare a termine quel che aveva iniziato e che si era prefissato fin da principio. Pietri incarnava il percorso che ognuno dei presenti aveva fatto proprio, il calvario personale da affrontare, coi suoi pericoli e imprevisti, deviazioni, bivi, difficoltà, fatiche.

Dorando Pietri concluse quella gara in maniera totalmente inaspettata e quel che ne seguì fu di sicuro più di quanto avrebbe potuto sperare di ottenere con una “semplice” vittoria. E tuttavia niente viene per caso perché, come diceva Winston Churchill, “un pessimista vede la difficoltà in ogni opportunità; un ottimista vede l’opportunità in ogni difficoltà”.
Buon per Pietri, che ha trasformato la difficoltà di cui si era fatto carico in una splendida opportunità.

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