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‘Cogito, ergo sport’: Rugby, l’arma in più nella lotta di Mandela

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“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo”.
(Nelson Mandela)

Esistono figure il cui solo nome è capace di evocare l’immagine di grandezza, coraggio, virtù, quasi fossero profeti o leggende. Quasi fossero eroi. Nelson Mandela, leadear dell’African National Congress, premio Nobel per la pace, icona della lotta nonviolenta, padre della “nazione arcobaleno”, da giorni in ospedale per le critiche condizioni di salute, è il simbolo della libertà del Sud Africa (e non solo) dal regime dell’apartheid, quel folle principio segregazionista basato su una presunta disuguaglianza tra bianchi e neri, sull’idea di una disparità di diritti, di condizioni, di dignità tra uomini che apparterrebbero a razze diverse.

Un’idea. Resistente, altamente contagiosa. Una volta che un’idea si è impossessata del cervello è quasi impossibile sradicarla. Un’idea pienamente formata, pienamente compresa si avvinghia, qui da qualche parte”.
(dal film Inception)

Nelson Mandela

Anche dopo che l’apartheid venne abolito nel 1991 era difficile sradicare dai bianchi afrikaner l’idea che esistesse una disuguaglianza per natura tra gli uomini, idea con la quale erano cresciuti i lori genitori e i loro figli, idea radicata da sempre nelle loro menti. Lo sport è stata la risposta; lo sport, grazie all’intuizione di Nelson Mandela, divenuto Presidente del Sud Africa nel 1994, è stato la chiave per aprire le giovani menti, per sbloccare il meccanismo di una segregazione che solo formalmente era stato superata. Lo sport ha contribuito alla più nobile e più difficile liberazione dell’uomo: quella della mente.

Da molti considerato il gioco di squadra per eccellenza, uno “sport bestiale giocato da gentiluomini” (Henry Blaha), il “gioco che fece una nazione” (John Carlin), il rugby, col mondiale del 1995 in Sud Africa, viene ancora celebrato come ciò che contribuì alla svolta, al cambiamento, alla riconciliazione fra la comunità bianca e quella nera sudafricana. Le polemiche su quella coppa vinta dai padroni di casa, gli Sprinboks, capitanati dal bianco afrikaner Pienaar, polemiche dovute ai presunti imbrogli per favorire la vittoria del Sud Africa, non minano il significato sociale di quell’evento.

Una commistione di forza e velocità, abilità, intuizione, sacrificio, il rugby è sempre una storia di vita, perché è lo sport più aderente all’esigenza di ogni giorno: lavoro, impegno, sofferenze, gioie, timori, esaltazioni. Non è uno sport da protagonisti, ma una somma di sacrifici”. Le parole di Luciano Ravagnani sottolineano quanto la scelta da parte del Presidente di dare importanza ed attenzione non ad uno sport qualunque, ma al rugby, fu tutt’altro che casuale. Era l’immagine di quella lotta combattuta da Mandela e dai suoi compagni, quell‘urlo di libertà che era sopravvissuto ai 27 anni di prigionia di Madiba e che non poteva essere gridato una volta per tutte ma andava costruito, mattone su mattone, con quella somma di sacrifici propria di chi corre per portare “l’imprevedibile pallone ovale” in campo avversario.

“Il rugby, così come la musica, deve servire ad uno scopo, deve essere un qualcosa di più ampio di se stessa. Deve servire un pezzo di umanità”.
(Pau Casals, violoncellista)

Nelson Mandela e Francois Pienaar

E così è stato. Il rugby è stato molto più di uno sport, molto più di un mondiale, molto più di una vittoria. È stato l’esultanza di un popolo nero alla vittoria dei suoi giocatori bianchi; è stata la stretta di mano tra il campione del mondo François Pienaar e il “campione del mondo” Nelson Mandela; è stato l’inizio di quella lotta ancora tutta da giocare, quella lotta contro il razzismo, l’ingiustizia, contro la disuguaglianza. Quella lotta che si può e si deve continuare a vincere: bastano una palla in mano e un sogno nel cuore.

 

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