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La notte senza fine dell’atletica italiana. Infortuni atavici e giovani incapaci di emergere

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Diciottesimo posto nel medagliere agli Europei indoor di atletica. Diciottesimo…Davanti nazioni come Albania, Grecia, Serbia, Ungheria. Una sola medaglia, vinta da un commovente uomo di di quasi 41 anni. Un bottino così misero non si verificava dall’edizione del 1988, quando arrivò il bronzo di Giovanni Evangelisti nel salto in lungo. Se la rassegna continentale di Belgrado doveva rappresentare il primo banco di prova della ricostruzione verso Tokyo 2020, il risultato racconta invece la notte senza fine dell’atletica italiana.

Il passato recente dice tutto: zero medaglie alle Olimpiadi di Rio 2016, zero ai Mondiali 2015, un argento nella rassegna iridata del 2013, ottenuta dall’allora 37enne Valeria Straneo. Definire l’Italia una comparsa non rende bene l’idea.

Ciò che preoccupa maggiormente è la mancanza di indizi che lascino presagire un’inversione di tendenza. Passano gli anni, ma i difetti restano sempre gli stessi. Non cambia mai nulla.

Pensiamo ad esempio agli infortuni a catena che hanno perseguitato il Bel Paese negli ultimi tre lustri. Daniele Greco è fermo praticamente da Londra 2012, Andrew Howe si è riaffacciato alla ribalta dopo 7 anni, Gianmarco Tamberi è alle prese con una caviglia non ancora a posto dal luglio 2016, due talenti come Federica Del Buono e José Reynaldo Bencosme sono spariti dai radar da svariati mesi. La costante, purtroppo, è sempre la stessa: i talenti italiani, merce sempre più rara, non riescono sostanzialmente mai a vivere una carriera regolare e continua, anzi quasi sempre, dopo iniziali buoni risultati, sono costretti a trascorrere la maggior parte del tempo ai box.

Un altro problema atavico riguarda l’incapacità di valorizzare i giovani di maggiori prospettive (che, per onestà intellettuale, non abbondano, tutt’altro…). Tante, troppe volte abbiamo visto atleti correre o saltare meglio a 17-18 anni rispetto a 24-25. Ragazzi che raggiungono l’apice quando, al contrario, dovrebbero trovarsi solo all’inizio di un processo di maturazione.

L’Italia degli anni Duemila non splendeva per qualità e profondità del movimento, tuttavia si difendeva grazie a delle punte di ottimo livello come Fiona May, Magdelin Martinez, Andrew Howe, Antonietta Di Martino, Fabrizio Donato, Elisa Rigaudo ed Alex Schwazer. Ad oggi, invece, ci sentiamo di indicare la sola marcia femminile (con Antonella Palmisano ed Eleonora Anna Giorgi) come unica speranza di medaglia ai prossimi Mondiali di Londra.

Pressoché inesistente a livello mondiale nella velocità, nei lanci e nel mezzofondo, l’Italia ha smarrito anche la competitività nella marcia maschile e nella maratona, in passato tradizionali terreni di conquista. Si difende ancora solo nei salti.

Gli atleti per abbozzare una rinascita non mancherebbero neppure: in attesa di ritrovare Tamberi, nel salto in alto bisognerà valorizzare necessariamente Alessia Trost, smarritasi nelle ultime stagioni; si punterà sul velocista Filippo Tortu, sui saltatori in lungo Filippo Randazzo e Marcel Jacobs, e, come detto, sulle marciatrici. Non è molto, ma in questo momento valorizzare questi atleti sarebbe oro colato. Per ogni notte c’è sempre un’alba, tuttavia l’aurora resta un miraggio lontano per l’atletica italiana.

federico.militello@oasport.it

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